ANNI '60: Maghi e magie romaniste

La colletta del Sistina

Quel giorno che Lorenzo si mise a chiedere soldi in teatro e Giacomino Losi si vergognava come un ladro. Avrebbe avuto miglior fortuna Oronzo Pugliese, detto "il mago di Turi"

Era una matinée del tutto particolare. Gli spettatori che gremivano il teatro Sistina erano tifosi romanisti carichi di sentimenti disordinati e confusi, predominavano amarezza e rancore. Atmosfere da «tempi cupi». La Roma attraversava un difficile momento, la gestione Marini Dettina stava precipitando verso il fallimento, almeno dal punto di vista finanziario. Azzardati movimenti sul mercato avevano zavorrato il deficit al punto che la società non aveva pagato gli stipendi di novembre e i giocatori avevano minacciato lo sciopero. Era intervenuta la Lega riportando un po' di ordine. Franco Evangelisti giudicò arrivato il momento di fare la mossa decisiva nel disegno che tendeva a scalzare Marini Dettina e affiancò lo stralunato presidente. Quel gentiluomo che era il Conte, dimostrava un totale disadattamento alle nervose vicende calcistiche, piene di contraddizioni, di ri pensamenti, di parole mancate, di giuramenti bugiardi. Sarebbe stato un movimentato Natale, quello del 1964. Bisognava preparare la trasferta di Vicenza, in programma per !'inizio dell'anno, e mancava tutto: l'entusiasmo e i soldi. Juan Carlos Lorenzo, arrivato da poco dopo aver saltato a pié pari il Tevere (aveva allenato la Lazio, nella stagione precedente) si era conferito un nobilissimo ruolo, quello del salvatore della patria, senza averne le stimmate. li suo rude proposito fu quello di convocare i tifosi e chiedere brutalmente un obolo. Il Sistina traboccava, di gente e di malumori. Tutto era stato possibile perchè un tifoso di antica fede come Pietro Garinei aveva aderito all'iniziativa ed era intervenuto perchè l'aristocratico teatro fosse messo a disposizione. Dal palco arrivò la voce concitata e rotolante -nello sconnesso italiano- di Juan Carlos Lorenzo. Accenti appassionati. Parlarono altri, nessuno sapeva chi fossero; la gente voleva offrire subito quello che poteva, per mettere fine all'ingombrante cerimonia. Sotto il cupolone non era mai successo niente di simile: la Roma si era sempre barricata, nelle situazioni difficili, dietro il suo coraggio, senza piangere, senza invocare aiuto. Il capitano Giacomo Losi compì l'atto più difficile: afferrò un secchiello da ghiaccio e percorse i corridoi che gli sembrarono, in quel momento, irti come cespugliosi sentieri di montagna: temeva che gli sanguinassero i piedi. Raccolse le offerte: un milione e mezzo, la Roma aveva un deficit di qualche miliardo. Losi confessò poi di aver temuto di morire di vergogna.

Il tempo dei maghi

Fu quello il tempo dei maghi. Nella seconda metà degli anni '60, alla Roma arrivarono Juan Carlos Lorenzo, Oronzo Pugliese, Helenio Herrera. Lorenzo aveva appunto sfidato la popolarità di H.H., ma recitando la parte dello stregone offese talvolta la sua stessa sapienza calcistica, che era. indubbia. Don Juan, come lo chiamavano, era preoccupato soprattutto di fare effetto: esibiva una logica paradossale, confezionava teoremi tecnici che pretendevano di assurgere a dogmi, impenetrabili e irraggiungibili. Era sincero soprattutto nella sua sfrenata superstizione. Rischiò di finire in cojonella, che a Roma è la sorte peggiore che possa toccare a un tribuno del popolo. Finché ti odiano, a Roma puoi lavorare: se cominciano a sfotterti, sei perduto. Ma soprattutto, Lorenzo si portava dietro un grave p.eccato originale: aveva alIenato due anni la Lazio, facendola risalire dalla serie B (e su questa promozione aveva fondato la sua popolarità) e poi piazzandola all'ottavo posto. Ma non era quella la strada per umiliare H.H., e Don Juan sognava la grande Lazio. Il presidente Miceli garantì che lo avrebbe assecondato. Nacque così il «Piano Miloo>, che sembrava destinato a portare la Lazio a tutti i successi possibili, a sfondare su tutti i fronti. Il piano Milor (Miceli-Lorenzo) perfezionava ogni giorno la forma senza prendere mai sostanza. Lorenzo cominciò a fiutare l'inghippo, a dare segni di insofferenza, a protestare con Miceli, e soprattutto con la stampa. In quel momento arrivarono le offerte della Roma. Se non aveva potuto fare la Grande Lazio, Lorenzo avrebbe fatto la Grande Roma. Invece non fece nemmeno la Grande Roma, poi vedremo perchè: comunque era capitato in un gran brutto momento. Esasperando la sua natura di istrione organizzò la colletta del Sistina provocando una profonda ferita nel tessuto della dignità giallorossa, molti non glielo perdonarono; alla fine della stagione era arrivato decimo e aveva fatto gravi danni con la sua rotolante dialettica. I malumori si diffondevano raggiungendo ogni angolo della società, don Juan alzava le spalle, raccolto nel suo sorriso furbo. Era simpatico, don Juan. E sapeva il fatto. suo: il contratto sarebbe stato automatica mente rinnovato in assenza di disdetta entro il 31 maggio, ed eravamo già arrivati al 29. Se ne vantò in giro. Il Conte Marini Dettina, incalzato da Franco Evangelisti che si accingeva ad assumere la presidenza, decise di agire: il 30 maggio fece pervenire la disdetta.

L'uomo di Turi

Franco Evangelisti, che si era preparato alla presidenza fin dai tempi della gestione Gianni, perfezionando il suo progetto durante il precario comando del Conte Marini Dettina, aveva in mente una soluzioneshock, aderente al suo carattere scoppiettante, che amava le idee-razzo: quelle lanciate d'improvviso e che poi esplodevano in fragorosi effetti. Stavolta l'idea sembrava addirittura stupefacente: esplodendo, disegnava scenari inimmaginati. Era l'idea di affidare la Roma carica della tradizione di Testaccio a Oronzo Pugliese, un mago casareccio, il «mago di Turi» provincia di Bari; altrimenti detto l'anti-mago, nel senso che Pugliese aveva raggiunto una divertita notorietà con una clamorosa vittoria sulla potentissima Inter di Herrera, il mago vero, quello universale. David contro Golia, perchè lui, don Oronzo, era alla guida tecnica del «paesano» Foggia. Alla vigilia, mentre tutti a Foggia e provincia tremavano, don Oronzo aveva detto: «Conosco le mosse giuste per raffreddare tutti gli slanci di Herrera. Mi frega assai di Suarez e Corso, io li lascio giocare e li aspetto». Detto e fatto: andò a finire che il Foggia vinse per 3-2, e fu uno dei risultati più clamorosi del campionato.
Sarebbe stato adeguato alla Roma, ne avrebbe capito lo spirito, ne avrebbe rispettato la tradizione, questo allenatore che era soprattutto un contadino furbo, che abitavaun mondo dai confini corti, che aveva di contro la lingua lunga e sbrigativa, che per non sbagliare non usciva dal seminato di una antica e consolidata saggezza popolare, che inchinandosi allé leggi naturali delle stagioni e assaporando solo i frutti della sua terrà, non spendeva una lira neppure se lo ammazzavi e misurava gli ingaggi in ettari di terreno, in alberi di ullivo e in orci di olio; che negava l'evoluzione della scienza calcistica e si affidava soprattutto al proprio intuito? In quale strada di Roma si sarebbe sperduto, questo simpaticone grezzo, scoppiettante, a suo modo irresistibile? Quanti lo avrebbero accettato come un compagnone allegro e quanti lo avrebbero scansato come un castigo di Dio?'
Una volta si discuteva sull'ingaggio di alcuni giocatori stranieri e Oronzo, contestando certi nomi non del tutto convincenti, concluse co.sì: «Se sono campioni del mondo si può discutere, altrimenti Peppa per Peppa, mi tengo Peppa mia». E questa teoria del tutto libera da ogni influenza filosofica, restò intatta nel tempo, base inattaccabile della sua struttura di pensiero. Ma sfrondato di tutti gli accessori che potevano anche non influire sul risultato, don Oronzo era un professionista esemplare. Personalmente, facemmo con la sua Roma una tournée negli Stati Uniti. Tante ne disse e tante ne fece, don Oronzo, e tanto promise, che laggiù scrissero che era sbarcato di nuovo Cristoforo Colombo. Da noi invece credevano molti che il mago di Turi sarebbe passato come una meteora, e sarebbe caduto distruggendo antiche forme di vita calcistica. Invece don Oronzo a Roma durò tre anni e cadde insieme al capo, cioè Franco Evangelisti: insieme erano venuti e insieme se ne àndarono: chi -tra i due- aveva mantenuto le promesse e chi le aveva tradite? Don Oronzo aveva la coscienza a posto 'e poteva giustamente godersi ancora la sua pace contadina: aveva lavorato sodo, alla sua maniera antica e se volete provinciale, con il materiale (sèarso) che una società in affanni gli aveva messo a disposizione. Non aveva fatto storie, per lui era come incontrare sempre l'Inter di H.H., ci provava un gusto sconosciuto ad altri. E continuava ad allargare la vigna. Scriveva a casa: «Buoni, che papà non vi farà mancare il pane».

Tratto da La mia Roma del Corriere dello Sport

 

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